Ringrazio la rivista Vivesani per aver menzionato il mio blog
Qualche tempo fa presentai ai lettori di Pillole di Storia il libro di Gigi Monello Il principe e il suo sicario, (https://www.pilloledistoria.it//6845/storia-moderna/letture-sui-borgia-il-principe-e-il-suo-sicario) incentrato sulla triste vicenda umana e politica del giovanissimo Astorre Manfredi, assassinato a soli 17 anni per volere del famigerato Cesare Borgia, oggi posto invece la recensione, interessante e ottimamente circostanziata, che del medesimo testo fa il lettore Don Paolino.
La recensione si legge tutta d’un fiato: la trovate di seguito.
Per andare al sodo, meglio lasciar stare la sinossi e guardare invece le figure: cortigiani inchinati; Arlecchini e Brighella, bastoni e coltelli alla cintola, sinistri, sicarieschi; prostitute fastose; giochi di piazza, cacce al toro; soldatacci, baffuti e barbuti, piumati, archibugi alla mano; e Pulcinelli osceni, a frotte; sbavanti attorno a pentoloni fumanti. Che vuol dire la galleria? È presto detto: è l’Italia profonda, metastorica, l’impasto perenne della nazione, il grumo denso che sopravvive intatto nei secoli; e dai secoli risale sino a tempi vicini. Vicinissimi, anzi.
Boccone per vecchi lettori (e rimasticatori) di cose italiche. Usare cautela: posson scaturirne “fughe di idee”. È come se frammenti di mille cose sepolte, prendessero a volteggiare: Ciceruacchio e Masaniello, Porcari e Cola, il Re Cafone e Lazzaretti; Mussolini e Starace: vino, palazzo, bordello, uniformi, cibo; frescure e nefandezze; grandezza e putridume.
È l’Italia dell’eterno brigare e corrompere, dell’ammiccamento e del gesticolio, del sangue e del ridere facili; sullo sfondo di un immancabile “pittoresco”. Enigma cattivo e insondabile: non‒stato, non‒nazione, fabbrica maledetta di avventure individuali prosperanti sopra un popolo come nessun altro permeabile al vitalismo del mascalzone.
L’occasione per rivelare questa sorta di struttura atemporale, l’autore va a cercarsela nelle minuzie fattuali di una vicenda locale, la conquista di Faenza per mano di Cesare Borgia, durante quel triennio 1500-1503, che vide il bastardo papale sul punto di procurarsi ‒vera botta di fortuna‒ sostanzioso Principato. Fruga in quelle fangose storie, e là trova l’anima di questo paese: una cosa a mezzo tra sinistro e pagliaccesco, feroce e servile. La patria risulta incatenata a maledizione super‒fisica: generare ciclicamente seduttori di diversa fortuna e durata. Tutte le volte che circostanze lo permettano, le maglie larghe de l’etica de noantri, producono l’amorale fiutatore del vento. Sottosuolo irriducibile; infernale stigma. Cesare Borgia? Il prodotto del costume familistico‒predatorio che impregna le fibre di un paese precipitato da grandezze imperiali allo sminuzzamento umiliante dei secoli di mezzo e di dopo-mezzo: luogo di giochi altrui, servitù ed affronti. Dal Duca parvenu sino alle ultime vicende del ventennio tele-populista (ma si potrebbero trovare più “palpitanti” prove), un inesorabile destino ci attanaglia; gente inconfondibile.
Libro duro e scabro; ma anche gioco barocco ‒assai studiato‒ di incastri, pienezza/ricercante. La scorrazzata è pirotecnica: dettagli su fortificazioni e assedi, conflitti mediterranei, impulsi ventrali del popolaccio romano (altari, carnevali, corse di storpi, porci scannati per gioco); necessità termodinamiche: principi fisici tutto-reggenti: indenni, silenti, ubiqui. Faenza, città assediata da multicolore orda pagata coi santi denari, appare pecora morente dentro un anfratto; sistema entropico che perde energie senza poterle rimpiazzare. L’impossibile repertorio del “tutto”, avvenuto o congetturabile, viene tentato: criteri per un catalogo di tutti i “modi di uscire dal mondo”; disquisizioni idrostatiche sul galleggiamento dei cadaveri (il Tevere abbonda dell’articolo); immaginazioni controfattuali (“che sarebbe accaduto se Astorre non avesse fatto ciò che di fatto fece”); divagazioni antropologiche su mente e sguardo (fan capolino Sartre e Fromm): l’adolescente Astorre chiuso in gabbia, annichilito a 17 anni; il tiranno Cesare, sadico perché spaventato; roso dalla “paura della libertà” che lo muove a sua insaputa; la soldataglia saccheggiante e stupratrice, che il bel tomo si porta dietro, usa a far beffe a base di escrementi; merda cui non mancan metafisici risvolti.
Scrittura secca e incalzante; libro irridente e senza riguardi. Liquida con disinvoltura una gloria del Pantheon nazionale, Machiavelli, il consacrato, l’intoccabile, il “fondatore” della scienza politica; straccia Cesare Borgia, per alcune teste sognanti (“signore malate di Rinascimento”) principe dall’alto sentire, capace di unificare anzitempo l’Italia. Piccolo borghese dal cervello sottile, e la penna un po’ sicaria, il primo; attratto dal sogno della personale grandezza dentro una oliatissima macchina-stato. Niente più che un gradasso avido di vita, il secondo; un’energia primitiva, che fiuta e cavalca l’onda delle circostanze; un figlio della fortuna che va cercando nella grandezza e nella signoria sulle altrui esistenze, il lenitivo contro la sua paura di esistere; banale faccenduola che include ‒ nientedimeno ‒ la morte.
Libro beffardo, serissimo, barocco. Quasi vien da ridere a immaginare che qualcuno lo compri pensando ai Manfredi e ai Borgia, per poi trovarsi davanti Mussolini e Dumini, Berlusconi e Previti. Libro di storia locale “col trucco”, alluso forse da quella citazione introduttiva di “Eros e Priapo” di Gadda. Raccontare una storia, significa perdersi nel mare degli infiniti imbrogli di tutte le altre: “Barocco è il mondo”.
Don Paolino (Foto da: corella.it e scepsimattanaeditori.com).
Gigi Monello
Il principe e il suo sicario.
Come Cesare Borgia tolse dal mondo
Astorre Manfredi. Con note sparse
sopra la mente di un tiranno.
Scepsi & Mattana, Cagliari, Settembre 2014
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