Ringrazio la rivista Vivesani per aver menzionato il mio blog
Nonostante l’aspetto fin troppo serioso e persino “freddino”, nel petto di Camillo Benso conte di Cavour batteva un cuore turbolento e appassionato.
Tempo fa, per il portale notizie.it, dovetti scrivere un articolo sul chiacchierato legame sentimentale che per anni unì lo statista alla nobildonna Anna Schiaffino Giustiniani, una vera e propria “relazione pericolosa” in pieno ‘800, dato che la fanciulla era già sposata e con prole; ammetto che la ricerca mi permise di venire a conoscenza di alcuni tratti caratteriali di Cavour che neppure sospettavo, abituata anch’io, come molti altri credo, a considerarlo il tipico uomo “tutto d’un pezzo” estraneo a debolezze di ogni tipo.
Ma mi sbagliavo…buona lettura.
Il senso più profondo della turbolenta relazione sentimentale che per qualche anno legò il giovane Camillo Benso di Cavour alla nobildonna Anna Schiaffino Giustiniani, si è impresso nelle lunghe e appassionate lettere che gli amanti si scambiarono in un fitto carteggio in gran parte ritrovato tra gli effetti personali del politico torinese; accanto alle lettere spedite da Anna, tenute insieme da un nastro, c’era una ciocca dei suoi capelli biondi, gelosamente conservata dallo statista in ricordo del suo primo grande amore.
Ma chi era questa donna e come conobbe il futuro tessitore dell’unità d’Italia?
Anna Schiaffino aveva sposato giovanissima il marchese Stefano Giustiniani Campi da cui aveva avuto due figli; come spesso accadeva, il matrimonio era felice solo in apparenza, poiché la ragazza, affatto innamorata del consorte, viveva quella situazione con sofferenza ed era attanagliata da uno stato depressivo che non l’avrebbe più lasciata.
A Genova, dove abitava, Anna, o semplicemente “Nina”, aveva allestito uno dei primi salotti repubblicani d’Italia, di cui era fervente animatrice; fu qui che ebbe luogo, nel 1830, il primo, fatidico incontro tra la triste signora e il ventenne Camillo, divenuto ufficiale del Genio e inviato in varie località d’Italia per seguire lavori di fortificazione militare.
La marchesa restò da subito affascinata dall’intelligenza e dai modi di Camillo, e in breve, nacque una storia d’amore che avrebbe finito per stravolgere la vita di entrambi.
La notizia della relazione si sparse di bocca in bocca suscitando inevitabilmente scandalo, poiché lei era sposata ad un uomo facoltoso con importanti mansioni politiche ed aveva già due figli; ciò le procurò l’ira della madre, preoccupata che la figlia potesse essere ripudiata e restare senza un soldo, e incredibilmente, la condiscendenza del marito che, prendendola con filosofia”, bollò la relazione extraconiugale della moglie come “è solo una passione” come scrisse in una lettera.
Intanto, mentre la donna, coinvolta e innamorata, si attaccava con impeto sempre maggiore al “suo” Camillo, lui, tornato a Torino, pian piano si staccava da lei e frequentava altre donne; Anna, al contrario, ne era ossessionata e più Cavour dimostrava di volersi allontanare da lei, più lei diventava sofferente e gelosa, al punto che iniziò a non frequentare nessuno chiudendosi pericolosamente in se stessa e non preoccupandosi minimamente di tenere nascosta la sua passione a madre e marito.
La relazione visse un ultimo gioioso sussulto dopo qualche mese, quando Anna e Camillo ebbero modo di rivedersi vicino Torino, e approfittando delle assenze del marchese, riuscirono a incontrarsi ogni giorno, mattina e pomeriggio, in un irrefrenabile turbinìo di sensi e passione; ma poco dopo la storia finì perché Cavour si innamorò di un’altra donna.
Ormai la Schiaffino, sempre più sconsolata e depressa, sentendosi abbandonata e non riuscendo a sopportare il distacco dall’uomo che amava, iniziò a mostrare inequivocabili segni di squilibrio, che la condussero a tentare più volte il suicidio finché non ottenne la morte tanto desiderata e attesa: nella notte tra il 23 e il 24 Aprile 1841, giorno dell’anniversario del primo incontro con Cavour, si gettò dalla finestra della propria camera di Palazzo Lescari a Genova, dove risiedeva: morì qualche giorno più tardi.
Non trovando posto in nessuna delle tombe familiari (il marito, in seguito, scelse di avere accanto la seconda moglie), il suo corpo fu composto e tumulato nella Chiesa dei Cappuccini a Genova.
L’epitaffio celebrativo fatto apporre dal consorte sulla sua tomba, è il trionfo dell’ipocrisia perbenista all’epoca molto comune, soprattutto tra le classi sociali più elevate: la marchesa è ricordata come moglie esemplare.
Questo invece è lo stralcio di una lettera che indirizzò all’amante qualche tempo prima di suicidarsi:
“La donna che ti amava è morta. Ella non era bella, aveva sofferto troppo. Quel che le mancava lo sapeva meglio di te. E’ morta dico e in questo dominio della morte ha incontrato antiche rivali. Se essa ha ceduto loro la palma della bellezza nel mondo ove i sensi vogliono essere sedotti, qui ella le supera tutte: nessuna ti ha amato come lei. Nessuna!” (Foto da: giustiniani.info e corriere.it).
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