Ringrazio la rivista Vivesani per aver menzionato il mio blog
Nell’Antica Roma la vita umana valeva generalmente poco, soprattutto quella dei più deboli, dei quali spesso e volentieri ci si “liberava” senza farsi troppi scrupoli o porsi tante domande.
L’articolo che segue, che scrissi per notizie.it, riguarda l’infanzia spesso negata dei bambini romani, mai sufficientemente protetti dallo Stato e lasciati in balìa dell’arbitrio di individui e famiglie tutt’altro che amorevoli.
Nascere ed essere bambini nell’antica Roma non era facile impresa, e alcune pratiche dell’epoca volte ad eliminare i bambini indesiderati, fanno inorridire.
Innanzitutto, per essere accettato in famiglia e conseguentemente nell’ambito della società, occorreva il necessario riconoscimento del neonato da parte del padre (o del capofamiglia), che si esprimeva con un semplice rituale consistente nel sollevarlo con le braccia dal punto in cui la nutrice lo aveva deposto.
Purtroppo però, non sempre i bimbi venivano accettati, e quando ciò accadeva, difficilmente gli sventurati neonati riuscivano ad evitare una sorte infelice e crudele.
Per tutta la durata dell’epoca imperiale si potette ricorrere alla sciagurata pratica dell’ esposizione del piccolo abbandonato fuori dalla porta di casa o tra i rifiuti; fu solo a partire dalla fine del II secolo, con il consolidamento dei nuovi valori professati dal Criastianesimo, che questa antica e disumana abitudine cominciò ad essere malconsiderata, finché non se ne sancì una volta per tutte l’illegalità.
La donna, almeno ufficialmente, non aveva voce in capitolo: il compagno, anche quando assente, era l’unico a poter decidere se tenere o abbandonare il figlio dando disposizioni ben precise alla donna incinta.
Tuttavia a volte l’amore riusciva a salvare lo sfortunato fanciullo; non di rado le donne affidavano di nasconsto ad altri i bimbi rifiutati dai padri, e seppure il più delle volte essi finivano per diventare degli schiavi, almeno era loro garantita la salvezza.
Nei confronti di bambini malati, illegittimi e per quelli delle schiave, la legge ammetteva l’ infanticidio.
Tali usanze non erano diffuse allo stesso modo in tutto l’Impero, e diversamente non poteva essere considerato l’ingente numero di popoli e territori che lo comprendevano, pertanto nella maggior parte delle province sopravvivevano costumi legati alla cultura d’origine; i Greci, ad esempio, preferivano tenere i maschi ed esporre le femmine, mentre Egiziani, Germani ed Ebrei accettavano tutti i figli allo stesso modo.
Anche se per motivazioni diverse, esposizione, aborto e infanticidio erano comuni a tutti gli strati sociali della popolazione, sia ricchi che poveri.
I figli accettati dai padri venivano affidati ad una nutrice che se ne occupava fino ai sette anni di età; nella maggioranza dei casi, nutrici, pedagoghi e fratelli di latte finivano per costituire la seconda famiglia dei bambini romani, spesso più affettuosa e accogliente di quella d’origine (Articolo tratto da: notizie.t) (Foto da: grandeclasse.altervista.org e wikipedia.org).
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